L’impatto economico dell’informazione del settore pubblico

Questo articolo è di Raimondo Iemma, ricercatore presso il laboratorio di economia dell’innovazione della Fondazione Rosselli. Partecipa al progetto EVPSI nell’ambito del gruppo di analisi sugli aspetti economici degli open data.

Il crescente dibattito in merito al rilascio del patrimonio informativo del settore pubblico (o PSI, acronimo di Public Sector Information) ha permesso di mettere in luce alcune opportunità fondamentali: maggiore trasparenza dell’operato pubblico, partecipazione informata ai processi decisionali, incremento dell’efficienza. Un ottimo esempio è il portale data.gov.uk, che riporta, tra gli altri, i dati di spesa del governo inglese per destinazione e ammontare. Elementi informativi che possono essere acquisiti e rielaborati senza restrizioni al fine di poterli interpretare, anche secondo serie storiche.

Che cosa comprende l’informazione del settore pubblico? Tutti i dati che vengono acquisiti e gestiti dalle pubbliche amministrazioni nell’ambito delle loro funzioni: dalle mappe all’anagrafe delle imprese, dalle statistiche sociali e demografiche agli elenchi delle biblioteche. Un insieme che già quattro anni fa valeva nel nostro continente oltre 27 miliardi di euro (studio MEPSIR).

Se i nuovi servizi digitali fondano il proprio valore aggiunto su flussi di informazione, proprio i dati gestiti dal settore pubblico possono costituire la fonte primaria di sviluppo, il “carburante” di queste nuove attività. In virtù delle caratteristiche peculiari dell’informazione digitale – non rivalità (il suo consumo non pregiudica il riutilizzo contestuale da parte di un altro soggetto), bassi costi di riproduzione, forti esternalità di rete – l’impatto economico dell’apertura dell’informazione del settore pubblico può riverlarsi dirompente.

L’ecosistema PSI è composto da una serie di attori che interagiscono in modo complesso. Le amministrazioni pubbliche generano basi informative, ne regolano il rilascio e, a loro volta, usufruiscono dei dati prodotti da altri organismi pubblici nell’ambito delle loro funzioni. Altri soggetti, imprese o singoli, acquisiscono i dati per praticarne il riutilizzo, anche a fini commerciali, creando, a partire dall’informazione, servizi a valore aggiunto rivolti a un particolare bacino di utenza.

Le condizioni di miglior funzionamento di queste interazioni sono tutt’oggi allo studio (in Italia, il principale progetto attivo sul tema è EVPSI) e variano da settore a settore.

Ci si interroga ad esempio sui più efficienti principi di tariffazione dell’informazione: se la Direttiva vigente consente fino a un “congruo utile” alle pubbliche amministrazioni, l’analisi economica suggerisce modelli di massima diffusione in modo da liberare il più possibile il potenziale dei dati, collegando le tariffe ai soli costi marginali di messa a disposizione dei dati. Naturalmente, ristrettezze di bilancio e necessità di poter garantire la continuità del servizio rappresentano vincoli da considerare. E c’è anche chi ritiene più efficiente per la collettività che il settore pubblico metta in piedi un sistema di tariffe che rifletta, più che i costi, il valore economico atteso dell’informazione nel mercato a valle. Ossia la disponibilità a pagare di chi acquisice informazione e il diritto a riutilizzarla, anche per scopi commerciali.

L’eventuale gratuità dei dati non è comunque un approccio “estremo” e non è affatto scontato si riveli penalizzante le amministrazioni pubbliche. Basti pensare agli organismi locali i cui introiti dalla cessione dei dati a malapena consentono di coprire i costi delle transazioni. È il caso (ma imaginiamo non sia l’unico) del settore cartografico della Regione Piemonte. Regione che ha recentemente adottato nuove linee guida per il rilascio dei dati con la “non-licenza” CC0.

Per quanto riguarda i principi di licenza, l’assenza di restrizioni anche per riutilizzo commerciale appare infatti vitale se non si vogliono limitare grandemente le possibilità di mercato.

Una questione fondamentale rimane comunque quella dell’equilibrio tra pubblico e privato. Esistono infatti già oggi numerosi esempi di mercati basati sul riutilizzo di informazione del settore pubblico, come quello delle informazioni commerciali (catastali, immobiliari o sulle imprese), che solo in Italia ha un volume di diverse centinaia di milioni di euro. Laddove l’assetto di mercato risulti opaco o discriminatorio – magari negli ambiti in cui il settore pubblico non sia abbastanza efficiente nel rilascio di informazioni di base, tanto da fare nascere un mercato privato di “compensazione”, o viceversa nel caso in cui sia il settore pubblico a tentare di accaparrarsi l’intero mercato con servizi a valore aggiunto – il processo di apertura può avere un ruolo positivo per gli utenti finali, in termini di miglioramento della qualità, maggiore capacità di accesso e abbattimento delle tariffe.

Infine, ci aspettiamo soprattutto che a partire dalla messa a disposizione delle banche dati pubbliche e dalla creatività di imprese e sviluppatori possano nascere nuovi servizi intelligenti e innovativi (come le app basate su data.gov.uk). Questo è l’obiettivo principale del processo di apertura dei dati.

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